Quando Garibaldi invase Subiaco

Era il 1849, quando 1500 uomini, agli ordini di Garibaldi, invasero Subiaco, ma l’evento più eclatante che la città ricordi, è avvenuto certamente nel 1867, quando un manipoli di garibaldini si scontrò con gli zuavi pontifici, in quello che sarà un episodio ricordato a memoria perpetua, con una targa ed una piazza intitolata al Capitano Emilio Blenio.

A quell’epoca il centro abitato si sviluppava prevalentemente ai piedi della Rocca Abbaziale, circondato da vigneti e oliveti, in un contesto romantico e affascinante, che però da lì a breve sarebbe stato turbato dalla guerra.

Subiaco era amministrata dal Vescovo Monsignor Filippo Manetti, originario di Ronciglione, molto caro ai cittadini, per essersi prodigato durante l’epidemia di colera, sia in Subiaco che nei paesi vicini, che per le opere di carità verso i più bisognosi, attingendo ai propri risparmi personali, come nel 1869 durante la carestia, oppure sovvenzionando opere urbanistiche per la città.

Due anni prima, nel 1867 appunto, come abbiamo dettola città subì un attacco, una scaramuccia, che però scrisse la storia di Subiaco; Le truppe garibaldine ai comandi del Capitano Blenio avevano raggiunto le montagne sovrastanti la valle risalendo da Camposecco, fino a Camerata Vecchia, poi da Cervara, compiendo un giro tortuoso per confondere le idee dei soldati pontifici ed affrontarli in caso di inseguimento da una posizione elevata e strategicamente difendibile, grazie alla presenza di boschi e rocce.

Blenio, che doveva ricongiungersi con le armate di stanza a Tivoli, decise che avrebbe potuto tentare di invadere Subiaco, data la scarsa difesa, dovuta al fatto che le truppe nemiche erano infatti mobilitate a caccia di garibaldini, formando due colonne, una che si era inoltrata verso Livata ed una che proseguiva verso Cervara; caccia infruttuosa terminata l’8 ottobre.

A comando dell’esercito pontificio vi era il Tenente Descleè, che una volta rientrato in città si incontrò col governatore Marini per pianificare la difesa, ovvero decisero di continuare la caccia, convinti che il manipolo garibaldino non contasse più di 50 uomini; all’alba del giorno dopo i pontifici avrebbero lasciato la città con 90 uomini a piedi e a cavallo per marciare verso Cervara, lasciando solo una piccola guarnigione di 20 soldati, all’interno della Rocca Abbaziale.

Giunti a Cervara, i soldati pontifici appresero che in realtà i garibaldini non erano più di una trentina, con loro portavano un prigioniero, un messaggero catturato e che erano risaliti di nuovo verso Camerata Vecchia; Descleè non capì la manovra di depistaggio e invece che tornare a Subiaco, data la vicinanza con Camerata Vecchia, decise di dirigersi in quella direzione, pur sapendo che sarebbero giunti solo nel pomeriggio.

Probabilmente il Tenente faceva affidamento sull’esiguo numero di nemici da affrontare e che avrebbe preso facilmente alle spalle e circondato, con forze superiori di 3 a 1; tuttavia la spedizione a Camerata non dette esito, dei garibaldini non c’era traccia e per di più, una pioggia torrenziale, con il calare della notte resero impossibile il rientro a Subiaco, costringendo gli uomini ad acquartierarsi a Cervara.

La mattina dell’ 11 ottobre, quando era chiaro che la città era sguarnita, Blenio che aveva trascorso la notte in un rifugio pastorale, stabilì di marciare a sinistra di Camposecco, verso i monti di San Donato per attaccare la città dall’alto, prima che le condizioni meteorologiche tornassero ad imperversare.

I garibaldini si portarono in cinque ore sulla cima del monte Toro dove si attestarono per riposare; Nel frattempo a Subiaco si vivevano ore di terrore, si mormorava che moltissimi garibaldini stessero per attaccare la città e il fatto stesso che l’esercito era uscito dalle mura aveva alimentato la paura.

La mattina dell’11 ottobre molti si erano radunati in piazza Sant’ Andrea, accalcandosi poi verso la terrazza dove c’era la fontana ed ora v’è il monumento ai caduti scorgendo degli uomini che discendevano dalla montagna, che inizialmente vennero scambiati per briganti che venivano a liberare Giammei, un facoltoso sublacense rapito, di cui erano stati pagati 10.000 scudi di riscatto.

Questo scatenò la reazione dei familiari del Giammei che iniziarono ad agitare fazzoletti dalle finestre e a sbracciarsi festosamente, dando l’impressione ai garibaldini, che il popolo attendesse il loro arrivo e si fosse schierato dalla loro parte, pronto a sollevarsi contro il Papa; ma man mano che gli uomini di Blenio si avvicinavano discendendo la montagna, i cittadini erano sempre più perlpessi: qualcuno li scambiò per “gamberi cotti”, studenti romani in visita al Sacro Speco, che avevano uniformi rosse, ipotesi avvalorata dal numero esiguo di quel piccolo plotone.

A sciogliere i dubbi però ci pensò Francesco Arquati, filettinense, che in seguitò morì come patriota a Roma, che grazie al suo binocolo identificò le uniformi, vide i fucili e le baionette, scatenando il panico tra gli atri cittadini, che si diedero alla fuga scomposta; Il sopra citato Vescovo Manetti fece chiudere le porte del seminario e si ritirò in preghiera nella cappella, mentre la guarnigione allertata disponeva una decina di uomini ad asserragliarsi nella Rocca Abbaziale e i restanti ad occupare la collina dell’Oliveto Piano, da cui avrebbero potuto attaccare alle spalle gli assalitori del maniero.

Scesi infine a Subiaco, i Garibaldini, come pazzi si gettarono all’attacco con le baionette spianate, incitando la popolazione a sollevarsi e a seguirli, lungo via del Colle (oggi via Papa Braschi), scatenando la reazione dei gendarmi della Rocca, che esplosero alcuni colpi, costringendo i garibaldini a disperdersi e ripararsi tra le case e la chiesa di San Sebastiano; una seconda scarica di fucileria ferì il Caporale Casimiro Anzini e il Soldato Semplice Biagio Di Massimo, entrambi garibaldini di origine abruzzesi.

Preso dalla foga, il Capitano milanese Blenio riuscì ad attraversare piazza del Campo, dirigendosi verso la casa dei Monaci ex caserma dei Reali Carabinieri e a sottrarsi alla visuale dei difensori, lasciando indietro invece il Tenente Francesco De Angelis con quattro militi, riparati dietro la chiesa di San Sebastiano; quest’ ultimo venne ferito a sua volta, da un pezzo di canala di rame colpito da una pallottola e caduto sulla mano, nel tentativo di raggiungere il Capitano.

Mentre si stava medicando alla meglio, il De Angelis venne raggiunto da un cittadino di Subiaco, tal Pietro Lollobrigida, che per poco non si fece ammazzare dai garibaldini, riconoscendolo, avendo studiato entrambi a Roma insieme; il Lollobrigida decise di condurre i cinque uomini lungo gli “scaloni” per raggiungere il Capitano, che nel frattempo era però già giunto in piazza Sant’Andrea.

Un’altra pioggia di colpi investì le camicie rosse, una palla centrò il portone della cattedrale e spaventando un povero prete ignaro di tutto, che pensando a uno scherzo gridò “buoni con quei sassi ragazzacci!”; Blenio ora ricongiunto con i suoi tentò nuovamente di sollevare la popolazione gridando slogan per Garibaldi e incitando Subiaco alle armi, senza tuttavia ottenere risposta.

Il Capitano riuscì comunque a aggiungere il palazzo del governatore e a prendere prigioniero Marini, informandolo che da quel momento Subiaco era nel governo provvisorio e che la città avrebbe dovuto consegnare la Rocca e abbassare le insegne pontificie, senza però avere la collaborazione del governatore; allora il Capitano lasciò quattro sentinelle da Marini e tentò di convincere il Vescovo Manetti, senza esito, ponendo anch’egli agli arresti sotto sorveglianza del De Angelis e un paio di militi.

Se abbiamo oggi una versione tanto dettagliata di come si svolsero i fatti, è grazie a un libro scritto nel 1931, da Monsignor Augusto Giustiniani, che lo redasse in base alle testimonianze raccolte tra i compaesani più anziani di Subiaco.

Blenio tornò dal governatore e nuovamente provò a convincerlo con le buone alla presenza del Consigliere Provinciale e del Gonfaloniere, scatenando stavolta la reazione orgogliosa e furibonda di Marini, che lo accusò di essere un invasore senza scrupoli e informandolo che il popolo di Subiaco era fedele al Papa, che ogni finestra era sbarrata e nessuno aveva risposto alle sue provocazioni di insurrezione.

Blenio tentò di far credere che vi fossero altri 400 uomini che circondavano Subiaco e che loro fossero soltanto un’avanguardia, poi sconsolato cercò nuovamente trattative con il Vescovo, che provò a convincerlo che non aveva nessun potere di resa sulla Rocca, offrendo di inviare il suo cameriere personale con una delegazione per convincere la guarnigione; ma neanche quest’ultimo, accompagnato dal Gonfaloniere riuscì ad avvicinarsi a causa delle scariche di fucileria che puntavano chiunque.

Il Capitano iniziò ad agitarsi, minacciando di mettere a ferro e fuoco la città, ignorando il suggerimento di andarsene prima che rientrasse il corpo d’armata di Descleè, ma in effetti era vero, che nelle vicinanze e precisamente a Vallepietra, ben 400 garibaldini agli ordini di Antinori si erano stanziati dopo aver messo in ginocchio gli abitanti con morte e razzie; tuttavia avendo saputo che le truppe pontificie erano state allarmate essi ripiegarono verso il confine abbandonando il Blenio al suo destino.

Ormai alle 15.30, di Antinori non v’era traccia e i cittadini di Subiaco, resosi conto dell’esiguità di quel plotone scesero in piazza radunandosi sotto la piazza del governo, cercando di capire con chi si sarebbero dovuti schierare, nel frattempo rientrava Descleè, avvertito da un messaggero, che divideva i suoi in tre squadre ed ordinava agli uomini in Rocca e sulla collina di mantenere le posizioni.

Il tenente zuavo Renand comandava la prima squadra che si potrò lungo il corso Principe Umberto, chiamata allora via dello stradone, mentre un’altra doveva sbarrare via Capo de’Gelsi, che oggi è via Garibaldi; Descleè invece discendeva dalla strada a scaloni di via delle Monache raggiungendo piazza Pulzinelli ed avvicinandosi con cautela al palazzo governativo …

Tuttavia, nonostante la presenza dei civili, gli zuavi appena sopraggiunti spararono creando parapiglia e fuggi fuggi, uno dei garibaldini cadde ferito a morte, Blenio cercò di rispondere al fuoco, ma la sua doppietta si era inceppata e un colpo di pistola proprio di Descleè lo ferì alla spalla; il Tenente raggiunse il Capitano, al quale partì un colpo che però andò a vuoto ed i due cominciarono ad affrontarsi corpo a corpo, il Descleè ebbe la peggio venendo ferito alla nuca ed una spalla dal coltello di Blenio.

Un milite garibaldino caricò il Tenente con la baionetta mancandolo, poiché Descleè si gettò a terra rotolando, ma quando fece per rialzarsi trovò il Capitano sopra di lui che stava per infliggere il colpo finale con il coltello … ma ebbe incredibilmente la prontezza di sparare ancora due colpi con la rivoltella colpendo il Blenio in pieno nel petto.

Nel mentre gli altri zuavi lottavano ferocemente con i militi garibaldini, alla fine dello scontro rimasero sul selciato il Capitano Blenio e due suoi uomini, un sublacense, Pietro Cittadini di Tomasso, vi furono anche alcuni feriti sempre tra i civili, tra cui un ragazzino di 14 anni che morì 10 giorni dopo; alcuni miliziani garibaldini furono fatti prigionieri, mentre gli altri si diedero alla fuga.

Sembrerebbe che la causa di un bilancio così basso sia dovuta al fatto che molte armi si incepparono, rovinate e bagnate dalle piogge che avevano imperversato in quei giorni; gli zuavi vennero acclamati come eroi dalla popolazione in festa, che alla fine dello scontro si riversò nelle strade.