A cura di Francesco Figliomeni, Avvocato, già vice presidente dell’Assemblea Capitolina
Domenica 12 giugno – dalle 7 alle 23 – le cittadine e i cittadini italiani sono chiamati alle urne per esprimere il proprio voto su un Referendum costruito su più domande. Il tema centrale è la giustizia, e i temi sono molto specifici e tecnici, ad esempio:
- l’esclusione delle elezioni politiche per persone che sono state condannate. Si tratta della Legge Severino;
- l’eliminazione o meno dell’istituto della “reiterazione del reato” (quindi il ripetersi continuo da parte di un individuo della commissione di reati) dall’insieme delle misure cautelari che consentono l’arresto della persona;
- la separazione delle carriere all’interno della magistratura. Quindi la questione dell’impedire o meno a magistrati (chi decide) e pubblici ministeri (chi accusa) di avere la stessa carriera, scegliendo all’inizio se si vuole lavorare come magistrato oppure come PM;
- le pagelle ai magistrati, cioè si chiede all’elettore se vuole che l’operato del magistrato possa essere valutato dai membri di Consiglio direttivo della Cassazione e dei consigli giudiziari, avvocati compresi;
- le nomine dei membri del Consiglio superiore della magistratura (l’organo di governo della magistratura italiana), con riguardo all’obbligo o meno di raccogliere da 25 a 50 firme per potersi candidare al Csm.
Sarà un Referendum abrogativo, cioè una consultazione popolare per capire se gli italiani vogliono mantenere alcune norme già presenti o le vogliono abrogare (quindi cancellare) dal nostro ordinamento:
- Chi le vuole mantenere in vigore deve rispondere NO ai quesiti
- chi le vuole cancellare deve rispondere SI ai quesiti posti nelle schede
QUESITO 1:
«Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n.190)?»
In parole semplici la domanda è questa: volete abrogare la legge che prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per parlamentari, rappresentanti di governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali in caso di condanna? Per chi è in carica in un ente territoriale, è sufficiente una condanna in primo grado non definitiva per la sospensione.
- Chi vuole abrogare la legge deve votare SI: e quindi vuole che persone condannate per reati non colposi tornino a ricoprire o mantengano cariche politiche;
- Chi vuole mantenere in vigore la legge deve votare NO: in questo modo si conferma l’incandidabilità e decadenza per queste persone.
Il quesito interviene anche sul risolvere una questione di molti sindaci ed amministratori locali che sono stati sospesi (seguendo la legge Severino), e che poi sono risultati innocenti o assolti, con un conseguente danneggiamento della loro vita politica e privata. E si chiede quindi se si vuole eliminare l’automatismo dell’incandidabilità o decadenza dal ruolo, lasciando la facoltà di decidere in merito ai giudici.
Votare sì nella scheda rossa significa abrogare del tutto la cosiddetta legge Severino. Approvata nel 2012 dal governo Monti, prende il nome dell’allora ministra della Giustizia, Paola Severino, disciplina i casi di eleggibilità e candidabilità di parlamentari e amministratori locali che siano sottoposti a procedimenti penali per alcuni specifici reati.
La legge prevede che parlamentari, europarlamentari e membri del governo non possano essere candidati oppure decadano dalla carica se, anche in corso di mandato, sono stati condannati in via definitiva a una pena superiore a due anni per reati di mafia, terrorismo e reati contro la pubblica amministrazione con pena superiore a 4 anni. Per gli amministratori locali, invece, è prevista l’incandidabilità in caso di condanne definitive per mafia, terrorismo, corruzione e concussione, ma anche se hanno riportato una condanna definitiva superiore a due anni per delitti non colposi. In questi stessi casi, si prevede la decadenza o la sospensione degli amministratori locali anche nel caso in cui abbiano riportato condanna non definitiva, dunque in primo o secondo grado.
I promotori del referendum ritengono che vada eliminato l’automatismo per i casi di incandidabilità e ineleggibilità e che vada ripristinata la libertà del giudice di prevedere, insieme alla sentenza di condanna, la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Inoltre, secondo loro è incostituzionale la sospensione degli amministratori locali in caso di condanna con sentenza non definitiva.
Secondo i contrari, invece, la legge Severino andrebbe modificata, soprattutto nella parte in cui prevede la sospensione in caso di sentenza non definitiva, ma non abrogata del tutto. Da mantenere, infatti, sarebbe la parte in cui si prevedono l’incandidabilità e l’ineleggibilità per i reati di mafia, terrorismo e reati contro la pubblica amministrazione.
QUESITO 2:
In questo caso la domanda posta ai cittadini è: volete abrogare la norma sulla “reiterazione del reato” dall’insieme delle motivazioni per cui i giudici possono decidere la custodia cautelare in carcere o i domiciliari per una persona durante le indagini (prima del processo).
- Chi risponde SI vuole eliminare questa motivazione dalle ragioni per cui si può disporre la custodia cautelare, lasciando la custodia solo per questi motivi: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e rischio di commettere reati di particolare gravità, con armi o altri mezzi violenti.
- Chi vota NO vuole mantenere in vigore la legge che consente l’arresto o i domiciliari anche per la motivazione del pericolo della ripetizione del reato.
Oggi infatti il giudice può adottare come misura cautelare, l’arresto o i domiciliari in alcuni casi di accusa per una persona: ad esempio in caso di pericolo di fuga, inquinamento delle prove e rischio di commettere reati di particolare gravità e, in caso di pericolo di reiterazione del reato: cioè il rischio che il soggetto in questione commetta ancora quel reato.
Il quesito referendario punta a limitare questa azione, anche alla luce del sovraccarico di arresti nel nostro Paese. Il referendum punta quindi a mantenere il carcere preventivo solo per chi commette i reati più gravi, abolendo la presunzione di una reiterazione degli stessi.
Il referendum sulla scheda arancione riguarda la modifica dell’articolo 274 del codice di procedura penale, che riguarda le misure cautelari. In particolare, il quesito prevede di eliminare la misura cautelare in carcere nel caso di rischio di “reiterazione dello stesso reato”, quando non si tratti di reati gravi.
La questione di procedura è complicata. Nella fase delle indagini preliminari, quindi prima che il processo inizi e che ci sia una sentenza di condanna, il PM può chiedere e il giudice per le indagini preliminari disporre una misura cautelare personale per l’indagato. Le misure cautelari sono gradate a seconda del reato per cui si indaga e possono essere per esempio l’obbligo di firma, il divieto di avvicinamento, l’obbligo di dimora in un determinato luogo, oppure quelle più invasive come gli arresti domiciliari o la detenzione in carcere. Il gip le dispone sulla base di alcune valutazioni: innanzitutto devono esserci gravi indizi di colpevolezza, poi si valutano il rischio che l’indagato inquini le prove, il pericolo di fuga e il rischio che commetta nuovamente il reato per cui è indagato.
I promotori intendono ridurre i casi in cui è possibile disporre una misura cautelare giustificandola con il rischio che l’indagato commetta di nuovo il reato. Se il quesito passasse, questa motivazione potrebbe essere usata solo per delitti gravi, come quelli commessi con armi o di criminalità organizzata. Non più, invece, per reati considerati meno gravi.
Questa modifica serve a ridurre i casi di indagati che scontano una misura cautelare in carcere senza una sentenza che li condanni e che quindi – nei casi più gravi – finiscano in carcere come forma di pena anticipata. Il pericolo di reiterazione del reato, infatti, è la motivazione che più di frequente viene utilizzata per disporre una misura cautelare. Secondo i dati, in Italia si stima che in trent’anni siano state quasi 100 mila le persone che sono state private ingiustamente della libertà personale, 30 mila delle quali sono state indennizzate per ingiusta detenzione per un totale di quasi 900 milioni di euro.
Secondo i critici, invece, questo quesito rischia di generare l’effetto opposto rispetto a quello desiderato, creando un cortocircuito. Il taglio di una parte dell’articolo, infatti, potrebbe fare sì che una misura cautelare non possa essere disposta nel caso di rischio di reiterazione di reati che non rientrano tra quelli “gravi” indicati nella parte non toccata. Per esempio, lo stalking. Inoltre, riducendo la possibilità di disporre le misure cautelari, aumenterebbero i rischi per la sicurezza pubblica.
QUESITO 3
È una domanda molto lunga, che può essere riassunta così:
Volete abrogare la norma che oggi consente di saltellare, nel corso della propria carriera, dal ruolo di giudice a quello di pubblico ministero (accusatore) e viceversa? La domanda nasce perché oggi le carriere tra chi giudica (giudice) e chi accusa (PM) non sono separate. Capita spesso che quindi una persona lavori per anni come PM in funzione di accusa e poi, improvvisamente, diventi giudice. Ciò potrebbe in alcuni casi porre un freno al requisito di terzietà e imparzialità dei procedimenti.
- Chi vota SI al referendum sceglie quindi di abrogare la norma, optando per l’obbligo di scelta tra essere PM o giudici all’inizio della propria carriera.
- Chi vota NO invece non ha problemi a consentire la stessa carriera per PM e giudici.
Attualmente, i magistrati hanno una carriera unica: fanno un unico concorso uguale per tutti e poi scelgono che funzione svolgere tra giudice penale, giudice civile e pubblico ministero. Poi, in corso di carriera, possono cambiare ruolo fino a quattro volte (ma la cosa avviene piuttosto di rado: ogni anno sono in media 19,5 i magistrati che passano da giudice a PM e 28,5 quelli che da PM passano alla funzione giudicante).
L’obiettivo dei promotori è di raggiungere un primo stadio di separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, eliminando la possibilità di passare da una funzione all’altra. In questo modo, un neo-magistrato deve scegliere in che ruolo cimentarsi per l’intera vita professionale. L’unica possibilità di cambio rimarrebbe per i giudici, che potrebbero passare dai tribunali penali a quelli civili.
In questo modo, secondo i sostenitori del sì, il sistema giustizia si riequilibrerebbe perchè non ci sarebbero più commistioni tra il magistrato che giudica – che deve essere imparziale rispetto sia all’accusa che alla difesa – e il magistrato che svolge le indagini e accusa. Oggi, invece, proprio il fatto di poter passare da un ruolo all’altro rende troppo vicine due funzioni che nel processo dovrebbero essere distanti.
Secondo i contrari, invece, questa commistione non esiste. Portato all’eccesso il ragionamento, infatti, bisognerebbe allora dividere anche i giudici dell’appello da quelli del primo grado, perchè la contiguità professionale potrebbe farli sempre scegliere in favore di confermare le sentenze emesse dai colleghi. Inoltre, esisterebbe un rischio: isolare eccessivamente i pm e ridurre la possibilità di ogni magistrato di arricchire il proprio bagaglio di professionalità attraverso lo svolgimento di funzioni diverse.
Anche questa previsione è modificata dal disegno di legge sull’ordinamento giudiziario: il testo non elimina il passaggio di funzioni, ma lo limita a un solo passaggio, che può essere chiesto solo nei primi anni di carriera.
QUESITO 4
La domanda da evidenziare in questa complicata catena di articoli e commi è:
Volete che l’operato del magistrato possa essere valutato dai membri di Consiglio direttivo della Cassazione e anche dai membri laici dei consigli giudiziari, come professori universitari e avvocati? Al momento ciò non avviene perché la Legge del 2006 lo impedisce.
Infatti i membri laici dei Consigli (avvocati, professori, ecc) sono esclusi dal dibattito e dalla votazione delle decisioni del CSM sulla competenza dei magistrati. In sostanza i giudici del Csm si giudicano tra loro. Anche qui è a rischio l’imparzialità.
- Chi vota SI vuole abrogare la legge e consentire che i magistrati vengano valutati anche dai membri laici come avvocati e professori universitari;
- Chi vota NO vuole continuare a escludere la valutazione laica per i magistrati
I consigli giudiziari sono dei piccoli Csm locali, presenti in ogni distretto. All’interno di questi consigli sono eletti i magistrati che operano nel distretto, insieme a dei consiglieri laici individuati tra gli avvocati e i professori universitari. Il numero di membri cambia a seconda nel numero di magistrati presenti nel distretto: in quelli con più di 350 magistrati, ci sono 3 avvocati e un professore; in quelli con meno di 350 magistrati, invece, gli avvocati sono 2.
Tra le varie funzioni che questi consigli svolgono, c’è anche la valutazione di professionalità dei magistrati, che serve per i passaggi di anzianità e di stipendio. Oggi i componenti laici non hanno diritto di voto nel giudizio di professionalità dei magistrati e in alcuni distretti nemmeno la possibilità di partecipare, senza votare, alla seduta.
Secondo i promotori, introdurre il diritto di voto per i membri laici esterni alla magistratura rende più equilibrata la valutazione di professionalità. Attualmente, infatti, le valutazioni sono sostanzialmente tutte positive (secondo i dati del ministero, tra il 2017 e il 2021 le valutazioni positive sono state il 99,2 per cento).
I contrari, invece, ritengono che sia improprio che i magistrati vengano valutati da soggetti esterni e in particolare dagli avvocati. Questo perchè il giudizio degli avvocati potrebbe essere condizionato da ragioni di contrasto professionale tra l’avvocato membro del consiglio giudiziario e il magistrato giudicato, soprattutto nei distretti più piccoli. Questo potrebbe creare una soggezione del magistrato nei confronti dell’avvocato, nel momento in cui si ritrovano contrapposti in un processo.
La riforma dell’ordinamento giudiziario prevede comunque di modificare questa norma: non introducendo il voto secco dei laici, ma il voto “unitario” dell’avvocatura in consiglio giudiziario, previo parere del locale consiglio dell’ordine. In questo modo, il voto degli avvocati non sarebbe individuale del singolo, ma necessariamente derivante dal parere del consiglio dell’ordine.
QUESITO 5
È il quesito sulla Riforma del CSM e l’elezione dei membri togati
Chiede all’elettore se vuole cancellare la norma che impone al magistrato di raccogliere da 25 a 50 firme per candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura. L’obiettivo è eliminare il sistema delle correnti nella magistratura.
- Chi vota SI fa sparire l’obbligo di procurarsi delle firme,
- Chi vota NO lo vuole mantenere.
Il tema riguarda il meccanismo con cui vengono eletti i consiglieri togati del Csm. Per candidarsi, infatti, oggi devono presentare tra le 25 e le 50 firme a sostegno del loro nome. Questa previsione, nella attuale legge elettorale del Csm, serve a far sì che i candidati possano contare su una soglia minima di rappresentatività: avviene così anche per i candidati in politica, per esempio. Le firme sembrano poche, ma va considerato che la platea degli elettori è di circa 9 mila magistrati. Inoltre, esistono in Italia anche uffici molto piccoli e dunque l’aspirante candidato potrebbe non avere materialmente intorno a sè almeno 25 colleghi pronti a firmare. Per questa ragione, la raccolta delle firme è facilitato per i candidati che siano iscritti uno dei gruppi associativi, che attualmente sono Magistratura indipendente; Autonomia e Indipendenza; Unità per la Costituzione; Area; Magistratura democratica; Movimento per la giustizia e Articolo 101. Per un gruppo associativo, che può contare su un buon numero di iscritti, la raccolta delle firme è un puro elemento di formalità.
Secondo i sostenitori del sì, eliminare le firme significa ridurre il peso dei gruppi associativi e quindi il condizionamento delle “correnti” nella presentazione delle candidature al Csm. Senza la raccolta firme, infatti, virtualmente ogni magistrato che aspiri a diventare togato al Csm può candidarsi senza alcuna incombenza.
L’obiezione a questo ragionamento è che, eliminando le firme, si elimina quella minima scrematura iniziale alle candidature.
Anche la riforma dell’ordinamento giudiziario in via di approvazione al Senato prevede nella nuova legge elettorale del Csm l’eliminazione della raccolta firme. A prescindere dal successo di questo quesito, quindi, la raccolta firme verrà con tutta probabilità comunque abolita.
Per maggiori info -> Vedi sito Ministero degli interni