Il telecronista Rai parla di “razze” e il web dei benpensanti si scatena

La filosofia del “politicamente corretto” a volte ci induce ad esagerazioni e quando la trasmissione lessicale scivola in parole bandite o a rischio, è inevitabile il sobbalzo sulla sedia dei benpensanti o sedicenti tali.

Il caso

Ieri sera, l’incidente del cronista Rai, prima del fischio d’inizio della partita del gruppo F tra Belgio e Canada, per i Mondiali di calcio in Qatar. Alberto Rimedio, nel commentare la squadra arbitrale guidata dallo zambiano Janny Sikazwe ha nominato gli assistenti Dos Santos (Angola), Maringule (Mozambico) e Yamashita (Giappone). Poi ha avuto l’infelice idea di aggiungere al suo commento: “Ci sono davvero tante razze per gli arbitri impegnati in questa partita”.

Apriti cielo! E il cielo si è aperto

I social hanno cominciato ad accogliere i commenti di qualcuno che è trasalito nell’ascoltare il termine “razze”, quasi come fosse un modo dispregiativo di indicare qualcuno. Eppure nei migliori telefilm polizieschi si sente parlare l’agente alla radio che dà la descrizione del ricercato dicendo: “maschio, razza bianca, altezza 1,80 circa…”. Beh in questo caso nessuno spegne indignato la tv e corre sui social a sfogare il suo sdegno.
Invece ieri sera qualcuno ha scritto: “Indescrivibile ignoranza e puntualmente fuori luogo”, commentando la frase di Rimedio.
Altri hanno fotoritoccato la sua foto e ne è uscito un Alberto Rimedio con baffetti hitleriani, e con commento: “Caro Rimedio, esiste solo una razza: quella umana”.
C’è poi chi ha scritto che Rimedio è quanto di peggio possa offrire la Rai.
Naturalmente c’è anche stato chi più sobriamente, ha preso le difese del giornalista.

Le scuse

Dopo il 1° tempo della partita Lui, si è voluto scusare in diretta per la frase che prestava il fianco a cattiva interpretazione. Rimedio ha detto: “Si sta alzando un polverone sui social, voglio chiarire le mie parole che sono lontanissime dal mio pensiero. Volevo dire nazionalità e non razze. Voglio scusarmi perché ho usato un termine improprio, un errore nella concitazione della diretta”.

Inutile sarebbe stato polemizzare e bene ha fatto il cronista a precisare e scusarsi per aver ferito la sensibilità di alcuni. L’incidente probabilmente si può definire chiuso e archiviato, anche perché non risulterebbero atteggiamenti “razzisti” attribuibili al giornalista.

Bisognerebbe saper dare un senso alla misura

Occorrerebbe riflettere sul modo in cui ci poniamo al cospetto di giudizi e accuse di qualsivoglia natura. Appare evidente che certi termini siano stati (fortunatamente) superati da una sorta di buon senso lessicale. Trasmettere oralmente o in forma scritta il proprio pensiero implica attenzione per il rispetto altrui. E fin qui nulla da eccepire. E’ però altrettanto significativo, quanto necessario un certo grado di tolleranza ed elasticità mentale, per evitare di attivare una caccia alle streghe illogica e addirittura controproducente. Chi oggi ha 50 o 60 anni ricorda che, certe parole oggi severamente vietate per non incorrere nella lesa Maestà, erano comunemente usate e nessuno si scandalizzava più di tanto…

Volendo fare degli esempi banali

Ci sono dei termini che si prestano ad interpretazioni ambigue o che, a giudizio comune, appaiono come lesivi per l’oggetto a cui sono diretti. Appellativi come “fro..o”, sono ben sostituiti da un più adeguato e rispettoso “gay”, altri come “handicappato” hanno avuto un’evoluzione nel linguaggio, dapprima come “portatore di handicap” e poi come “diversamente abile”. Anche definire cieco qualcuno è diventato irrispettoso e si preferisce il termine: “non vedente”. La parola “negro” ha perso la G, rendendola più accettabile, eppure solo qualche anno fa un certo Fausto Leali (definito il negro bianco per la sua voce) cantava Angeli Negri. Possiamo percorrere innumerevoli esempi per comprendere come la lingua viva, il comune parlato, si sia evoluto con eleganza. Non dovremmo però demonizzare certi scivoloni che nulla hanno di intenzionalmente offensivo. Come diceva qualcuno: la bellezza è negli occhi di chi guarda. Alla stessa maniera possiamo concludere che la malafede, talvolta, è annidata negli orecchi di chi ascolta.

Foto d’archivio non relativa alla partita in oggetto, tratta da imtv.it