“Siamo passati dal cogito ergo sum al digito ergo sum. Viviamo in uno stato di connessione permanente: come se essere online fosse il solo modo per esistere. Perennemente circondati dal mormorio della Rete, assordati da un rumore di fondo incessante, da un “bla-bla” dal quale non riusciamo a prendere le distanze”.
Così Marino Niola, antropologo della contemporaneità e docente universitario a Napoli, sintetizza la sempre più comune condizione di “connessione disconnessa” in un’intervista rilasciata a Paolo Cagnan per il settimanale “L’Espresso”.
Una velocità, quella del mondo digitale, che ben si confà ai canoni di una società costituita da corridori, da soggetti, cioè, inscindibilmente legati al modo dell’immediatezza e, in un’estensione quasi conseguenziale, a quello della fretta.
Ci si è abbandonati al vortice della rapidità, che spesso viene osannata e assurge a unico mezzo disponibile per la conquista del successo. Un atteggiamento, questo, che non poteva non comportare derive anche sul piano psicologico. Oggi, di fatti, si parla di “digital stress”, ovvero “uno stress causato da interazioni negative con le tecnologie digitali, come le email, i messaggi, i social network, i cellulari, le applicazioni etc.”
La FOMO, “fear of missing out” e, cioè, la paura di essere tagliati fuori, non è che una forma di ansia sociale che deriva dal desiderio di rimanere sempre in contatto con gli altri e con le attività da loro svolte e che è caratterizzata dalla paura di essere esclusi da “eventi, esperienze o contesti sociali gratificanti”.
Una forma di ansia che non può che essere acuita dalla smaniosa attitudine a mostrare e condividere a cui ci spingono i social network, in un turbinio incessante di immagini e contenuti digitali che innescano meccanismi di competizione e comparazione che, ovviamente, risulteranno falsati perché effettuati sulla base di informazioni appositamente edulcorate e, utilizzando un termine in questo ambito calzante, “ritagliate” per il fine a cui sono destinate.
E poi c’è la “nomofobia” o “No Mobile Phone Phobia”, l’irrazionale timore di rimanere “lontani dalla possibilità di collegarsi mediante il proprio smartphone”, strettamente legata a quello che viene definito “checking habit”, l’abitudine di controllare lo smartphone per verificare l’arrivo di nuove mail, notifiche o messaggi.
Si è cercato di arginare queste derive psicologiche e lo si è fatto sulla base della teoria della “slow tech”, che pone al centro la necessità di proporre un’informatica che tenga conto delle esigenze degli esseri umani, dato che, come ha sagacemente affermato Deborah Johnson nel 1985, “la tecnologia non è soltanto artefatti, ma artefatti incorporati in pratiche sociali e infusi con significati sociali”. La tecnologia e la società, dunque, si plasmano a vicenda (co-shaping) e, in una prospettiva lungimirante, diventa fondamentale considerare i sistemi ICT dei “socio-technical systems”.
Da questo approccio proviene la proposizione di un metodo di “disconnessione”: il “digital detox”, “un periodo di tempo che si sceglie volontariamente di passare lontano dai social media e altri ambienti digitali, senza usare smartphone, tablet, PC e altri device simili, con l’obiettivo di rivedere e rendere più sano il proprio rapporto con la tecnologia”.
Una scelta che viene a configurarsi come una pausa di riflessione, un tentativo di porre un freno al rapinoso fiume della tecnologia, al quale siamo soliti permettere di avvolgere tutto e trascinarlo con sé.
Il tema del digital stress assume un significato ancora più attuale se declinato in funzione della situazione di emergenza sanitaria che ci si è ritrovati a fronteggiare da quasi due anni a questa parte.
Maria Rosaria Rapolla, medico responsabile di Psicogeriatria del Centro Sant’Ambrogio Fatebenefratelli, ha evidenziato come proprio la pandemia, e lo stato di isolamento e perenne distanziamento a cui essa ha costretto, sia stata il motore “del desiderio di vedersi, di trovarsi, di comunicare”, allontanando la diffusa tendenza all’auto-esclusione dal mondo esterno e al rifiuto totale di ogni forma di relazione, se non quella virtuale, che aveva trovato una classificazione alla voce “sindrome Hikikomori”.
Questa situazione ha permesso che il mondo digitale venisse accreditato e innalzato a unico “luogo sicuro” possibile, in cui la relazione ha continuato a essere permessa senza troppe remore anche nei periodi di lockdown più serrato; un ineguagliabile spazio grazie al quale si è potuto evitare quello esterno e reale, fonte primaria di ansie e angosce.
Anche in questo caso, l’unica soluzione prospettabile sarebbe quella di allontanarsi gradualmente dal virtuale, e non con atteggiamento demonizzante, bensì consapevole dei grossi limiti che riguardano questo universo.
Il rischio è quello di perdere il linguaggio del corpo, il significato degli sguardi e delle pause, la profondità dei luoghi, così bombardati come siamo da stimoli ipertrofici ed esclusivamente bidimensionali.
Questo perenne sottofondo, che tenta instancabilmente di riempire, colmare, rattoppare, sta lentamente, ma inesorabilmente, comportando la svalutazione dei silenzi e della loro utilità.
Nella prospettiva di un elogio dei silenzi e di un’apologia degli spazi vuoti, bisognerebbe ricordare che, in alcuni casi, è molto più produttivo rimanere in attesa, un’attesa che non si trasformi in un passivo crogiolarsi nel nulla, ma in uno slancio ottimistico di preparazione dell’anima a ricevere.
La speranza è che, come dice il dott. Niola, “smaltita la sbornia, inizieremo a servirci di Internet senza farci usare. Altrimenti, la Rete diverrà un dispositivo di formattazione delle coscienze spaventosamente totalitario”.