Il 31 marzo scade il divieto per le aziende di licenziare per motivi economici, sia individuali, sia collettivi. Dall’1 aprile, dunque, il governo potrebbe dover fronteggiare lo tsunami delle risoluzioni del rapporto di lavoro. Uno scenario da un milione di posti persi secondo molti, anche se fare una stima precisa appare difficile e si rischia di dare numeri imprecisi perché sono molte le variabili da considerare. Lo stop in vigore dal 17 marzo 2020 per arginare gli effetti della pandemia sull’occupazione, e prorogato già per tre volte dalle norme emergenziali, è uno dei nodi che l’esecutivo Draghi deve affrontare da subito. Non a caso è il primo provvedimento in tema di lavoro che i sindacati si aspettano dal nuovo governo, insieme alla proroga della Cig-Covid (a oggi hanno ricevuto il pagamento diretto dall’Inps più di 3,6 milioni di lavoratori, mentre più di 3,4 milioni hanno ricevuto la cig anticipata dalle aziende e poi subito dopo conguagliata dall’Inps). Arrivare fino all’estate con i sostegni esistenti (cassa integrazione e blocco dei licenziamenti) è una delle ipotesi cui l’esecutivo sta lavorando. “È impossibile fare una stima dei posti di lavoro che salterebbero in caso di mancata proroga al blocco dei licenziamenti – spiega all’AGI Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt – il problema è che da un lato non sappiamo quante imprese decideranno di andare avanti con la cassa integrazione per non perdere le competenze costruite in questi anni e quante sono queste persone che le aziende considerano fondamentali e che non vogliono perdere”. “Dall’altro lato – prosegue Seghezzi nel ragionamento – non sappiamo quante sono le aziende piccole che hanno completamente bruciato le loro offerte di mercato e che non possono fare altro che chiudere, anche se secondo me non sono tantissime perché oggi sarebbero già fallite probabilmente. Mettendo insieme questi due temi capiamo che la cosa è davvero troppo vasta”. “Dobbiamo anche considerare – continua l’economista – tutte quelle imprese, molte delle quali si trovano in Nord Italia, che sono incastonate nelle catene del valore che vanno con la Germania e con altri Paesi europei, per le quali quindi ora è tutto fermo ma vi è certezza che una ripartenza ci sarà”. Seghezzi ribadisce: “È troppo difficile dare un numero, ma posso dire con certezza che quando lo sblocco dei licenziamenti arriverà, il problema vero sarà soprattutto nei servizi, nel turismo e nella ristorazione. In quei posti cioè che hanno già esaurito tutti i contratti a termine e non li hanno rinnovati. Credo che molti hotel e ristoranti stiano aspettando l’estate per provare a ripartire e senza un’altra proroga per parecchi quelli a venire saranno mesi più complicati”. Secondo una nota della Banca d’Italia, senza le misure adottate per affrontare gli effetti della pandemia, il Covid-19 avrebbe potuto causare 200.000 licenziamenti in più rispetto ai 500.000 legati a motivi economici che già si sarebbero verificati nel 2020 (in linea con l’anno precedente, quando c’erano state anche 1,3 milioni di assunzioni stabili). Considerando i 100.000 licenziamenti economici avvenuti nel privato fra gennaio e metà marzo 2020, le prime stime degli economisti di via Nazionale indicano che l’estensione della Cig, il sostegno alla liquidità delle imprese e il blocco dei licenziamenti abbiano impedito l’anno scorso circa 600.000 recessi. A cavallo tra ottobre e novembre, l’Istat ha effettuato la seconda indagine rapida sulla situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria, rivolta alle aziende con almeno 3 addetti. Si tratta di circa un milione di imprese, con oltre 12 milioni di addetti che, nel complesso, rappresentano quasi il 90% del valore aggiunto e circa tre quarti dell’occupazione complessiva delle imprese industriali e dei servizi. Dall’indagine è emerso che le aziende più in crisi sono quasi 292.000 e, attualmente, danno lavoro a quasi 1,9 milioni di addetti. Di situazione “esplosiva” parla anche il Cnel nel suo Rapporto annuale, in cui ricorda che la pandemia ha colpito 12 milioni di lavoratori tra dipendenti e autonomi, per i quali l’attività lavorativa è stata sospesa o ridotta, in seguito al lockdown. Tutti questi soggetti sono stati interessati dall’erogazione di prestazioni di sostegno al reddito. A questi si aggiungono 733.611 beneficiari dell’assegno ordinario a carico del fondo bilaterale per l’artigianato, 408.608 beneficiari dell’assegno ordinario a carico del fondo bilaterale per i lavoratori in somministrazione, oltre a 4.352.000 lavoratori inclusi nel sistema speciale di protezione sociale con i decreti-legge contenenti norme di contrasto agli effetti dell’emergenza. E poi 3.259.000 autonomi, professionisti e collaboratori, 250.000 stagionali, 554.000 lavoratori agricoli, 41.000 lavoratori dello spettacolo, 31.000 lavoratori intermittenti, 5.000 lavoratori autonomi occasionali e venditori a domicilio, 212.000 lavoratori domestici. Solo nel 2020 hanno perso la propria occupazione 208.000 autonomi, tra imprenditori, professionisti e collaboratori. A lanciare l’allarme è la Confesercenti, che ha chiesto al governo politiche attive e di riconversione mirate al lavoro autonomo. Ma anche sostegni efficaci per evitare che le attività continuino a chiudere: se continua così, per la Confederazione circa 450.000 imprese rischiano di sparire a causa della pandemia. Nel dettaglio, i lavoratori in proprio e gli imprenditori sono calati nel periodo di 80.000 unità, collaboratori e coadiuvanti di 74.000, i liberi professionisti di 50.000.