Il 31 dicembre 2021 terminerà il sistema di pensione sperimentale varato nel 2019, meglio conosciuto come Quota 100.
Nel 2021 si potrà inoltre andare in pensione con l’APE sociale. Dal 2022 però, la pensione tornerà ad essere fruibile dal compimento del 67esimo anno d’età.
Addio quota 100 a fine anno
Col Decreto Legge 4/2019 venne introdotto il periodo sperimentale di 3 anni della misura definita quota 100. Divenne possibile accedere alla pensione dal 2019 compreso, con 62 anni di età e 38 anni di contributi. Passati tre mesi dalla data di raggiungimento dei requisiti per i dipendenti pubblici e 6 mesi per i lavoratori del settore privato, i lavoratori hanno potuto quindi fare domanda di pensione. Questa possibilità andava ad aggiungersi alla pensione anticipata e di vecchiaia.
Chi non potrà avvalersi entro fine anno dei 38 anni di contribuzione da “accoppiare” ai 62 anni di età, non potrà andare in pensione col regime quota 100.
Dal prossimo anno si dovrà attendere altri 5 anni. In ogni caso, indipendentemente dall’età, dal 2022 la pensione si attiverà con una contribuzione pari a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.
Pensione anticipata
Nel 2022 scatterà quindi lo scalone dei 5 anni con l’età pensionabile a 67 anni. Tuttavia coloro che potranno beneficiare dello scivolo di 7 anni potranno scegliere di optare per la pensione anticipata.
La legge Fornero del 2012, per favorire il ricambio generazionale, nel settore privato, e per le aziende con oltre 15 dipendenti, aveva introdotto la prestazione di accompagnamento alla pensione, detta anche isopensione. Interessa i lavoratori che maturano i requisiti di contribuzione o di età anagrafica entro 4 anni dalla fine del rapporto di lavoro. Si apre la possibilità di andare prima in pensione. Lo scivolo dei 4 anni è stato portato a 7, nel triennio 2018-2020, con la legge 205/2017.
In seguito, un emendamento alla legge di bilancio 2021 ha prorogato lo scivolo fino a dicembre 2023.
Come funziona la pensione anticipata
Lo scivolo di 7 anni permette di guadagnare anni rispetto ai 67 che sono il traguardo dal 2022. I requisiti necessari sono: essere dipendenti di un’azienda con almeno 15 dipendenti; bisogna avere un contratto a tempo indeterminato; deve essere conseguenza di un accordo sindacale con l’azienda, teso alla riorganizzazione, all’esubero del personale o semplicemente per motivi di ristrutturazione aziendale. Il beneficio si estende anche ai dirigenti.
Non ci sono “perdite” sulla quota della pensione, il lavoratore percepirà esattamente l’importo che otterrà in via teorica al momento di cessazione del rapporto di lavoro per effetto del raggiungimento dei requisiti di pensionamento. Per 7 anni quindi beneficia dell’assegno pensionistico, esclusa la contribuzione correlata che il datore di lavoro si impegna a versare per il periodo di uscita anticipata dal lavoro.
Il pagamento è articolato in 13 mensilità, è soggetto a tassazione ordinaria, non matura però l’assegno per il nucleo familiare e non è soggetto a reversibilità.
La pensione a 63 anni – l’APE sociale
L’istituto dell’APE sociale è rivolto agli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti, ai fondi ad essa esclusivi o sostitutivi, le gestioni speciali dei lavoratori autonomi e la gestione separata dell’Inps.
Il campo d’interesse annovera i lavoratori dipendenti del settore pubblico o privato, gli autonomi e i parasubordinati. Ne sono esclusi i liberi professionisti iscritti alle relative casse professionali.
Oltre all’iscrizione ad una di queste casse, il lavoratore deve aver cessato l’attività lavorativa, risiedere in Italia, e non percepire altri trattamenti pensionistici.
Possono accedere all’APE sociale
I lavoratori in stato di disoccupazione e che hanno rilasciato presso il centro per l’impiego la dichiarazione di immediata disponibilità. La disoccupazione deve derivare da licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale nell’ambito della procedura di conciliazione obbligatoria.
Se si è beneficiato della Naspi, è necessario che questa prestazione non sia più percepita da almeno 3 mesi.
Può accedere all’APE il lavoratore con all’attivo almeno 30 anni di contribuzione.
All’Ape possono accedere i “caregiver”. Resta il vincolo dei 30 anni di contribuzione. Devono assistere da almeno sei mesi, il coniuge, la persona in unione civile o un parente di primo grado convivente con handicap in situazione di gravità.
inclusi anche coloro che assistono, un parente o un affine di secondo grado convivente, se i genitori o il coniuge della persona con handicap hanno compiuto i settanta anni di età, oppure siano essi stessi colpiti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
Ammesso l’accesso anche per le categorie degli invalidi con almeno il 74% di invalidità. Dovranno comunque essere in possesso di una contribuzione di 30 anni.
I lavoratori che hanno svolto lavori usuranti, per almeno 6 anni negli ultimi 7 ed in possesso di almeno 36 anni di contribuzione.
Se il lavoratore è una donna i requisiti contributivi sono ridotti di 12 mesi per ogni figlio. La riduzione del conteggio contributivo prevede un massimo di 24 mesi.
Nulla di nuovo all’orizzonte
Da come ha ribadito il ministro del Lavoro Andrea Orlando, non ci sarebbe nell’ottica del governo Draghi alcuna intenzione di “mettere mano” al momento, ad una riforma del sistema pensionistico.
Le priorità dell’esecutivo sarebbero più orientate alla revisione dei cosiddetti “ammortizzatori sociali”.
Le osservazioni dei sindacati
Fanno notare le associazioni di categoria che esaurito il sistema Quota 100, si prospetteranno per i lavoratori altri 5 anni di lavoro.
Inoltre “lo scalone” dei 5 anni – definito improponibile dai sindacati – significa aspettare altri 5 o 6 anni per accedere al pensionamento.
La GCIL, CISL e UIL hanno inviato una nota congiunta al ministero con la richiesta di individuare una soluzione meno penalizzante e una maggiore flessibilità. Nella nota viene sintetizzato: “La riforma complessiva dell’impianto previdenziale dovrà prevedere la possibilità di accesso flessibile alla pensione, il riconoscimento della diversa gravosità dei lavori, la valorizzazione del lavoro di cura e del lavoro delle donne“.
Le ipotesi in campo
L’unica certezza è quella del ritorno ai 67 anni di età. L’arcano per il governo è riuscire a contenere la spesa pensionistica, come richiesto anche dalla Ue, ma anche di “svuotare” posti di lavoro per un ricambio occupazionale giovanile.
La proposta del Dem Graziano Delrio, potrebbe essere un primo passo. L’introduzione di Quota 92, una misura destinata ai lavoratori che svolgono occupazioni usuranti. Questi lavoratori potrebbero accedere al diritto alla pensione con un minimo di 30 anni di contribuzione e 62 anni di età anagrafica. Naturalmente la quota accantonata sarebbe inferiore, quindi i pensionati godrebbero di un importo inferiore, una “perdita”, ma sarebbe più corretto considerarla un mancato accantonamento, di circa il 3% sul tetto altrimenti raggiungibile.
La considerazione evidente -osservano alcuni- è che, sebbene si ottenga una pensione più leggera, si guadagna arrivandoci prima. Inoltre sempre secondo alcuni pareri, l’incidenza sarebbe quasi trascurabile, 30 euro ogni 1000 di pensione!
C’è poi l’ipotesi Quota 102. Restano invariati i 38 anni di contribuzione, ma l’età sale a 64 anni. Una possibilità che interessa circa 150mila lavoratori all’anno. Lascerebbero il lavoro 3 anni prima rispetto ai 67 anni, ma rinuncerebbero ad un accantonamento pari appunto a tre anni, che influirebbe per il 5% rispetto sulla quota maturabile se continuassero a lavorare fino ai 67 anni.
Anche in questo caso va messo in conto che la pensione si otterrebbe in anticipo e il mancato guadagno economico, sempre in rapporto a 1000 euro sarebbe di 50 euro. L’equazione suggerita dai sostenitori di questa possibile soluzione, evidenzia che 36 mesi di pensione ottenuta prima, andrebbero ampiamente a compensare la “perdita” di un importo massimo ottenibile.
Altra ipotesi di revisione, in effetti piuttosto blanda, prevede la possibilità per tutti, uomini e donne, di accedere alla pensione al raggiungimento dei 41 anni di versamenti. Quota 41. Attualmente vale la regola dei 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne.
Conclusioni amare
L’esperimento è concluso, ne prendiamo atto, e prendiamo coscienza che dal governo non arrivano segnali che lasciano sperare o intravedere possibilità di un recupero o di un ribadimento di Quota 100. Non ci sono nemmeno le intenzioni di espandere per altri anni tale misura.
Ci toccherà rassegnarci all’idea che ancora una volta faremo grandi passi indietro. Ma si sa, la speranza è l’ultima a morire, e grazie a questa convinzione non abbandoniamo l’idea che si possa individuare una soluzione meno onerosa per i lavoratori. Siamo consapevoli di aver “spremuto” le casse al limite e che si deve recuperare l’economia del Paese, nonché quella delle famiglie. Occorre però pensare che il recupero debba passare anche dall’occupazione. Come puntare allora sull’occupazione dei giovani se i vecchi resteranno ancorati per anni nei luoghi di lavoro? Siamo inclini a supporre che il governo saprà dirimere questo dilemma. Almeno questo è ciò che ci auguriamo.
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