“Virità, femminile singolare-plurale” di Giusy Sciacca è pubblicato da Edizioni Kalós. Il libro è un percorso di ricerca dalla Sicilia verso l’universalità della storia mediterranea attraverso la narrazione del femminile.
Per questo “Virità, femminile singolare-plurale” non è rivolto solo alle donne o solo ai siciliani, ma va oltre i confini regionali. Nei racconti delle protagoniste – da Aretusa, Santa Lucia, Cleopatra di Sicilia, Damarete di Agrigento a Peppa la Cannoniera e a molte altre più e meno note – si leggerà della storia e del patrimonio culturale che appartengono all’Italia intera e oltre.
“Virità, femminile singolare-plurale” è un viaggio per tutti attraverso la stratificazione storica della Sicilia, ma è anche un ardito esperimento. Lo è anche a livello linguistico per cercare di rendere in una forma moderna l’anima delle donne nel rispetto del loro contesto di appartenenza. Da un racconto all’altro si parla in greco, latino, arabo, ebraico fino all’arbëreshe e si respirano ancora altre lingue come lo spagnolo e il francese. O in un siciliano impregnato di suoni e parole di origine lontana.
Il titolo e il sottotitolo racchiudono tutto il senso di questo progetto: un termine siciliano femminile singolare e plurale. Niente di più chiaro. La stessa virità può essere parziale, relativa. Appartiene a una e a molte, ognuna è certa di averne almeno una – spiega l’autrice –. Siano state esse regnanti, nobili o schiave e popolane, criminali o eretiche, donne di scienza e artiste, hanno vissuto da protagoniste più di quanto spesso la storia o la letteratura abbia reso loro merito perché viziate da misoginia atavica, di frequente tanto interiorizzata da non essere percepita. A queste si aggiungono le nostre sante e le ninfe dalle quali spesso i riti religiosi provengono.
Hai definito, tra l’altro, “Virità, femminile singolare-plurale” come un viaggio attraverso la stratificazione storica della Sicilia. Per l’appunto, giocando un po’ con le parole, credi che la “voce” femminile sia rimasta strozzata in Sicilia più che altrove in Italia?
Confermo, “Virità” è un viaggio che parte dal senso più profondo della Sicilia, quello della terra Madre, del femmineo dal sacro al profano, per moltiplicarlo e amplificarlo verso l’universalità. La voce diviene coro oltre ogni confine. È trasversale. Per questo, in riferimento proprio alla “strozzatura”, credo che affermare che in Sicilia le donne siano state più penalizzate costituisca il rischio di perpetuare ancora uno stereotipo senza potersene mai liberare. Il sacco delle parole va ben oltre i confini della Sicilia.
Le maglie di una cultura patriarcale radicata in Sicilia hanno, purtroppo, iniziato a sciogliersi forse con più ritardo rispetto a un nord più ricco e permissivo, ma è la cultura che genera consapevolezza. E in questo forse una terra che ha sofferto molto da un punto di visto economico ha patito ulteriormente anche su quello della diffusione culturale. Tuttavia, se ci pensiamo, la cronaca oggi ci dice che la voce delle donne è penalizzata o spenta del tutto a prescindere dalle latitudini. Purtroppo, basta guardare i notiziari.
Ci sono leggi, regolamenti, criteri in ogni contesto, o quasi, sociale, economico, politico, professionale, per garantire la giusta emancipazione e il sacrosanto diritto alle donne di trovare pari opportunità. Ma per quanto riguarda lingua e linguaggi, quanto sono importanti nel contesto sociale per una solida e durevole emancipazione femminile? E come si può intervenire?
Abbiamo avuto bisogno di leggi e regolamenti, appunto. È questo il paradosso. Si è ritenuto necessario scrivere nero su bianco che le donne hanno pari capacità intellettuali per concorrere con gli uomini. In realtà, credo che le donne chiedano solo rispetto come individui. È questa la premessa imprescindibile per un vero cambiamento.
Sei anche una collaboratrice di testate giornalistiche, e allora ti domando se e quanto trovi aggressivo, pericoloso, ingiusto il linguaggio utilizzato nei titoli e negli articoli delle nostre testate. Cosa possiamo fare noi giornalisti in merito?
Questa è una bellissima domanda, che dimostra consapevolezza e impegno nel rendere concreto il cambiamento proprio a partire dall’uso delle parole. Non mi riferisco a questa testata in particolare, ovviamente. Tuttavia, spesso l’inganno è costituito da rimasugli di cultura patriarcale così interiorizzata da essere oggetto di gaffe o di vero e proprio micro-machismo.
Ne scrivo anche nella premessa alla sezione “Artiste, letterate e donne di scienza”. Perché un giornalista dovrebbe scrivere che “due donne” hanno vinto il premio Nobel e non “due scienziate”? Non è un’offesa, ma non rende il giusto merito. Perché continuare a chiamare per tutto un articolo un’eccellenza della fisica internazionale con il solo nome di battesimo quando si racconta la sua storia? Sembra quasi voler dire che Cenerentola l’ha spuntata anche stavolta. Non mi è mai capitato di leggere il caso contrario, quello di uno scienziato illustre al quale ci si rivolga bonariamente con il solo nome. Come se fosse il vecchio compagno di scuola.
Ecco, sono piccolezze sulle quali riflettere per chi ha l’importantissimo ruolo di fare informazione.
Questo volume non ha il solo proposito di ricordare queste donne, ma si propone una sfida audace. Vuole dare loro voce una volta per tutte. Non una catalogazione dunque, ma racconti intimi ed emozioni autentiche, o plausibili, narrate in prima persona. La coscienza delle donne, siciliane e non, è qui.
Delle protagoniste ho cercato di interpretare il sentire, ciò che non hanno detto o non è stato sufficientemente ascoltato. Non hanno mai parlato così o non era stato permesso loro di parlare in alcuni precisi momenti. Adesso, sì. Conclude la scrittrice.